La Corporate Social Responsibility nel contesto italiano

ottobre 31, 2006
Veronica Cogliati: CSR in Italia

Veronica Cogliati: CSR in Italia

 

Questo articolo nasce dalla volontà di offrire una panoramica su due universi considerati a lungo inconciliabili: il mondo del sociale e il mondo delle imprese. Certamente, un argomento di così vasto respiro non permetterà di esaurire la materia oggetto d’analisi, tuttavia vorrei cercare di individuare alcuni punti interessanti per delineare almeno in parte i complicati rapporti che intercorrono tra queste due sfere. Lo scenario del sociale, infatti, si presenta oggi variegato, affollato da una serie di nuovi soggetti che si affiancano ai consueti protagonisti. La rosa si è ampliata notevolmente da quando anche le imprese private hanno fatto il loro ingresso, spinte dall’esigenza di soddisfare una richiesta di maggiore eticità nella conduzione delle politiche aziendali. In questa evoluzione da attore meramente economico ad istituzione comunitaria, l’impresa non può assolutamente prescindere dall’operare con responsabilità, essendo a ben vedere parte integrante di un ampio ed articolato contesto sociale con cui interagisce costantemente e dal quale provengono pressioni e richieste. In un primo momento, dunque, la comunicazione si è sviluppata in una logica prettamente mercantile e solo con il tempo ha mostrato le sue potenzialità etiche, diventando un utile strumento a disposizione non solo dei consueti protagonisti del sociale, ma anche di imprese private che si rendono portavoce di istanze collettive di cui lo Stato non riesce più a farsi totalmente carico. Questo nuovo interesse nasce da sollecitazioni e da precisi obiettivi di marketing che spingono le aziende verso una partecipazione volontaria nella risoluzione di problemi legati a tematiche ambientali, culturali e sociali, collaborando attivamente con gli enti non profit al fine di migliorare le realtà in cui operano. Il fenomeno non può certo dirsi totalmente nuovo nonostante negli ultimi anni abbia subito un’accelerazione in termini di sviluppo e di interesse riscosso sia tra l’opinione pubblica che tra gli stessi operatori economici. Questo atteggiamento rappresenta, inoltre, una tra le più interessanti ed innovative forme di comunicazione sociale, anche se certamente ambigua e non del tutto disinteressata. Naturalmente, il consumatore odierno è disincantato e ben conscio della convenienza che producono simili investimenti, tuttavia, numerose ricerche hanno evidenziato una netta propensione verso prodotti e brand “solidali”, dimostrando una forte sensibilità verso le tematiche ambientali e dei diritti umani, oltre a confermare una generale modificazione dell’intera dinamica dei consumi che conduce verso una fruizione più critica degli stessi. In questa evoluzione, che vede transitare il suo ruolo da da attore meramente economico ad istituzione comunitaria, l’impresa non può infatti prescindere dall’operare con responsabilità, essendo a ben vedere parte integrante di un ampio e articolato contesto sociale con cui interagisce costantemente e dal quale provengono pressioni e richieste. In questo senso, il corporate giving rappresenta un utile mezzo per promuoversi e perseguire contemporaneamente finalità imprenditoriali e benessere collettivo, coniugando utile ed etica. Tutto ciò si configura palesemente come un impegno che va oltre meri obblighi legali e che reca svariate implicazioni. Detto ciò, possiamo asserire che la responsabilità d’impresa, se correttamente interiorizzata nella mission aziendale e condotta in modo strategico, può trasformarsi in un importante plus, un valore aggiunto che consente di coniugare utile ed etica, offrendo differenti apporti alle performance aziendali: permette di posizionarsi in modo distintivo sul mercato, creare un “contesto facilitante”, nobilitare i prodotti, migliorare immagine e reputazione. Possiamo quindi dedurre da queste prime considerazioni che l’acquirente frivolo e tendenzialmente infedele della società di massa ha lasciato il posto ad un consumatore più flessibile, multidimensionale ed eticamente orientato che pone sempre maggiore attenzione nelle proprie scelte fino a dettare nuove regole nel tacito contratto domanda/offerta. Oggi, l’acquisto non è più indotto soltanto dal rapporto qualità-prezzo o dalla soddisfazione edonistica, ma è frutto di un’oculata scelta in cui il cliente non compra semplicemente un detersivo, ma vuole contribuire in un certo senso a “migliorare il mondo”. Il progressivo affermarsi di questa figura è confermata dal moltiplicarsi di associazioni di consumatori, dai consistenti casi di boicottaggio verso imprese (soprattutto multinazionali accusate di violare diritti della persona o di favorire il depauperamento ecologico) e dalla crescente importanza del commercio equosolidale. Pertanto, il nuovo orientamento al consumo può essere considerato una delle principali cause che hanno alimentato la CSR. Si delinea, così, un quadro in cui la responsabilità d’impresa è destinata ad acquisire anche in Italia crescente rilevanza, eliminando progressivamente quelle operazioni meramente di facciata dietro cui occultare una “fedina aziendale” sporca. L’obiettivo delle imprese rimane pur sempre il profitto, non potrebbe essere altrimenti, tuttavia quest’ultimo inizia ad essere perseguito nel rispetto dei valori e della dignità umana. L’impresa, chiamata a rispondere dei suoi effetti sociali, dovrà reinventare le proprie politiche di marketing. Uno spot ben riuscito può qualificare l’immagine aziendale presso il target e l’opinione pubblica, ma è solo l’ultimo e più visibile passo di un lungo percorso. Non basta certo limitarsi ad operazioni di pura facciata per ottenere risultati duraturi: se vogliono risultare davvero credibili, le imprese devono essere in grado di dimostrare che la loro strategia di CSR è qualcosa di più di una buona attività pubblicitaria, piuttosto che di relazioni pubbliche, di charity o di sponsorizzazione. È necessario adottare un nuovo paradigma di comunicazione globale che tenga conto dei mutati valori del proprio pubblico, valori che devono necessariamente essere trasposti per prima cosa all’interno dell’intera politica aziendale e solo successivamente rispecchiati nella comunicazione verso l’esterno. L’etica, per molto tempo avulsa dal contesto economico, comincia ad integrarsi sistematicamente alla sfera commerciale: viene dunque superata l’opinione, diffusa in passato, secondo cui economia e sociale sono settori autonomi, autoreferenziali, quasi discordanti. Detto questo, posso concludere auspicando che questa non sia semplicemente una “moda” passeggera pronta a sparire ai primi insuccessi, bensì una tendenza destinata a rafforzarsi e influire profondamente tanto nel tessuto sociale, quanto in quello economico.

Veronica Cogliati

 


Write to PressWeb__Ad ognuno le sue competenze?

ottobre 25, 2006

Ciao, PressWeb.
Lavoro come consulente grafico ed editoriale per la realizzazione di cataloghi, house organs, brochures e newsletters aziendali. Faccio questo questo lavoro da diversi anni e ho avuto la possibilità, grazie anche alla collaborazione con colleghi più esperti, di accrescere la mia professionalità. Vengo al punto, al punto dolente.. Da più di un anno, svolgo parte del mio lavoro presso una società di servizi ubicata nell’hinterland milanese. Ogni volta che mi occupo della stesura dei testi relativi ad un paio di house organs di aziende clienti, mi accorgo che ciò che ho scritto viene fatto leggere praticamente a tutte le persone che lavorano negli uffici, comprese a quelle che hanno incarichi commerciali o amministrativi. Molto spesso, alcuni passaggi dei miei testi vengono modificati senza minimamente interpellarmi. La cosa grave è che, almeno un paio di volte, le modifiche ai miei testi si sono rivelate errate nei contenuti e nell’esposizione. Secondo i responsabili della società, è bene che anche altri vedano ciò scrivo, perché “essendo ancora giovane potrei incorrere in errori che è meglio evitare”. Ciò è offensivo, ho 30 anni e lavoro da 10, faccio questo lavoro come libero professionista da 5, diversi clienti mi hanno dimostrato la loro stima e questi si permettono di trattarmi così? C’è una logica in tutto questo? Un grazie per la tua risposta.

“Mister Hall” 

Caro “Mister Hall”,

no, ritengo che non ci sia una vera logica alla base del comportamento dei tuoi colleghi di progetto, almeno non una logica degna di questo nome. Il problema centrale è insito nella struttura con la quale stai collaborando: prevalentemente, essendo solo “aggregatori” di testi e di foto per la realizzazione di varia documentazione aziendale e non avendo una vera competenza in materia di scrittura, probabilmente, sono persone alquanto insicure di ciò che può venir redatto dall’interno del loro team, perché scrivere non fa un gran che parte del loro background professionale. Questo li porta a far visionare i tuoi testi a tutti, magari anche al fattorino di passaggio… Quanto racconti mi fa venire in mente una frase detta da un mio carissimo amico, un avvocato che, da tempo, lavora negli States: in Italia, manca troppo spesso il rispetto per il lavoro degli altri. Il tuo caso è un esempio lampante: fai il tuo lavoro da anni, sei già stato gratificato da diversi clienti e, ora, lavori a fianco di persone che, nei fatti, tengono e mantengono un comportamento irrispettoso nei riguardi tuoi e della tua professionalità. Il vero problema, comunque, non riguarda te, ma pare proprio che riguardi loro, in quanto è il loro comportamento che cozza tremendamente contro le regole basilari del lavoro in team e della conseguente suddivisione delle competenze. Una cosa simile, in passato, accadde anche al sottoscritto e la ricetta migliore da applicare è “non ti curar di loro ma guarda e passa” (a qualcosa di meglio). Insomma, nel tuo caso, tutti mettono e vogliono mettere becco su tutto: certi vizietti sono duri a morire… La piega che ha preso la faccenda è roba da dinosauri (e che non si offendano gli spiriti degli antichi lucertoloni).


Marco Mancinelli
PressWeb Editor
pressweb@teletu.it  

L’entusiasmo del manager e del professionista, tra realtà e fiction

ottobre 24, 2006

C’è un termine che viene utilizzato di sovente e da diverso tempo negli ambienti manageriali e consulenziali: entusiasmo. Entusiasmo significa sentimento di gioia, di ammirazione o di dedizione verso persone o verso ideali. Con notevole frequenza, il termine entusiasmo viene pronunciato parlando di impegni aziendali o consulenziali, spesso, per imprimere una maggiore dose di enfasi ad un determinato discorso attinente la propria professione o l’asserita propria professionalità. Avere entusiasmo non è un male, anzi, è un gran bene, perché ciò è capace di dotarci di energie importanti, di nuovi stimoli e di nuove idee da sviluppare. Fin qui, nulla da eccepire: il discorso non fa una piega e sapete perché? Perché “semplicemente” stiamo parlando di un tipo di entusiasmo vero, spontaneo e genuino, il cui sincero detentore ha già dentro di sé tutte le energie per riuscire in un determinato compito, anche complesso, in quanto soggetto carico di stimoli veri che avverte realmente dentro se stesso. Ben altra cosa, invece, è l’entusiasmo autoindotto, autoproclamato e di maniera che viene sbandierato ai quattro venti da professionisti ed uomini di azienda che, così facendo, non fanno altro che recitare un ruolo. Un ruolo, tra l’altro, che, spesso, poco gli si addice. Durante le riunioni, questi personaggi impiegano frasi del tipo “…ogni cosa va affrontata con tanto entusiasmo, perché è una sfida nuova…“, “..io sono un vero entusiasta, le difficoltà mi esaltano sempre!…“, “…la nostra società fa sempre cose spettacolari e sull’onda dell’entusiasmo verso il cliente!…“. Il tutto è corredato da sorrisi smaglianti, da occhi aperti fino all’inverosimile e da mani che mimamo con scrupolosa passionalità quel qualcosa di grande che si è in grado di fare in virtù di un tale ed altisonante entusiasmo. Per dovere di cronaca, va comunque detto che non sempre chi si atteggia ricorrendo alle modalità fin qui descritte è un qualcuno che finge verso gli altri e verso se stesso: esistono anche persone naturalmente ben disposte verso tutto e verso tutti, su questo non c’è dubbio. Ma…quanti discorsi forzati, quante frasi che sanno di fanatismo e di patetica finzione! Il sottoscritto appartiene a quella categoria di comunicatori e marketer che preferisce andare o consigliare di andare in profondità ad una questione professionale per capire se essa stimola la creatività, la voglia di fare e di proporre qualcosa di nuovo: se questo si verifica, l’entusiasmo viene da sé, magari sarà apparentemente meno teatralizzato rispetto a certi personaggi, ma, con ogni probabilità, sarà vero e non finto. Poi, quante volte il termine entusiasmo viene proferito a sproposito da certi personaggi!.. Un veloce ed eloquente aneddoto per sorridere…? Fresco di laurea, un giovanotto confidò ad un suo conoscente (un consulente aziendale entusiasta!) i gravissimi problemi che affliggevano i suoi familiari e le sue difficoltà nel trovare un’occupazione decente; il tutto fu detto, ovviamente, con una faccia che non aveva nulla di allegro. Cosa replicò, il suo impareggiabile interlocutore? “Ma dai, metti da parte tutti questi problemi, fanno parte della vita, no? E vivi ogni giorno con tanto ma tanto entusiasmo, ci sono tante sfide entusiasmanti da vincere!“. Non c’è dubbio: a volte, la realtà supera la fantasia, alla faccia del buon senso…

Marco Mancinelli
PressWeb Editor
pressweb@teletu.it