Intervista ad Andrea Carlo Cappi, scrittore noir

ottobre 26, 2007

Andrea Carlo Cappi

I libri e l’arte della scrittura sono tra i più importanti protagonisti del variegato mondo della comunicazione ed è proprio nell’attività letteraria contemporanea che si fondono, dando vita ad un mix estremamente significativo, capacità editoriali, creative e intellettuali. Ma com’è il mondo di uno scrittore? Quali sono le motivazioni che lo spingono a scrivere, a creare storie che, molto spesso, oltre che dalla propria interiorità, traggono spunto dalla complessa realtà circostante? Ne parliamo con Andrea Carlo Cappi, affermato e prolifico scrittore del genere noir, reduce, tra le sue tante attività, dalle lezioni di scrittura creativa poliziesca tenute presso il festival brianzolo del noir (“La Passione per il Delitto“).

Come è iniziata la tua attività di scrittore? E perché il genere noir?

Ho cominciato vincendo un concorso per un soggetto radiofonico nel 1991: un minisceneggiato di RadioRai che non è mai andato in onda… sarà sepolto chissà dove negli archivi! Ma mi ha aperto le porte de “Il Giallo Mondadori” e, nel giro di un paio d’anni, grazie anche alla nascita in quell’epoca della cosiddetta “Scuola dei duri” di Milano, ho cominciato a pubblicare, prima, un racconto sul “Giallo”, poi, una serie (il Cacciatore di libri) e, poi, un’altra serie sugli speciali stagionali (Carlo Medina). Il genere noir deriva dal mio immaginario, che si è configurato all’età di sei anni, quando vidi per la prima volta 007, Hitchcock e gli spaghetti western. Cominciai a leggere Salgari e mi trovai fra le mani il mio primo albo di Diabolik. Il noir è il genere che racchiude tutti quegli elementi ed è stato naturale che partissi da quello quando sentii il bisogno di raccontare storie.

Per i tuoi racconti, trai ispirazione dalla realtà contemporanea?

Moltissimo, anche se non amo romanzare i delitti della realtà. Vi faccio riferimento solo quando avverto la presenza di depistaggio o di disinformazione (per esempio, nel caso di Lady Diana, che sta alla base del mio “Ladykill/Morte accidentale di una lady”). Di solito, preferisco lavorare su situazioni reali, cercando possibili retroscena e sviluppi, come nella serie “Nightshade” che pubblico in edicola su “Segretissimo” e che ora esce in libreria da Alacran. Storie del genere mi permettono di parlare di come vanno, secondo me, le cose del mondo… e non sempre la mia visione corrisponde alla versione ufficiale.

Come definiresti il genere noir?

L’epica contemporanea. Non occorre che ci siano scenari spettacolari come la guerra di Troia o il viaggio di Ulisse (o la missione di 007, il colpo di Diabolik o la caccia a un serial killer): può essere anche la nera vita quotidiana dei personaggi di David Goodis o l’indagine suo malgrado di un detective come il Lew Fonesca di Stuart Kaminsky o il male che irrompe in un’esistenza normale come nei thriller di Raymond Benson. Ma quando la vita si confronta con la morte o con il pericolo, è sempre noir ed è sempre epica.

Tra i tuoi libri, a quale sei più legato e perché?

Difficile decidere. Posso dire che quello dalla vita più lunga sinora è stato “Morte accidentale di una lady”, che ha avuto due edizioni nella versione originale, più breve, e altre due nella versione completa, la prima edizione tuttora in libreria da Alacran e la seconda in edicola lo scorso agosto con il titolo “Ladykill” da Mondadori, per cui, di fatto, è un libro di cui mi ritrovo a parlare senza interruzione da dieci anni. Ma tutti i miei romanzi sono “vissuti” allo stesso modo e nello stesso modo, quando li scrivo. Non faccio distinzione neppure tra le storie che scrivo con i miei personaggi (il Cacciatore, Medina, Nightshade) e quelle con personaggi che non ho creato io (Martin Mystère, Diabolik): se li ho scritti era perché ci credevo e se ci credevo allora continuo a crederci anche adesso.

Oltre ad essere scrittore noir, sei anche editor, traduttore, consulente editoriale, fumettista, saggista e divulgatore. Secondo te, cosa significa comunicare?

Nel mio caso, significa raccontare storie: è quello che faccio come scrittore, fumettista, saggista e persino quando tengo lezioni di scrittura. Fare lo scrittore è una conseguenza dell’essere sempre stato un lettore e avere amato le storie scritte da altri. Da qui, sorge spontaneo lavorare come consulente e traduttore, ovverosia fare in modo che storie altrui siano pubblicate o siano trasposte in italiano da un’altra lingua. Il motivo per cui amo le storie è duplice: in primo luogo, sono intrattenimento, la funzione primaria che ho sempre cercato nei romanzi che leggevo e, in secondo luogo, possono far riflettere, perché l’intrattenimento non esclude l’intelligenza.

Cosa consiglieresti ad un aspirante scrittore?

Tenacia e autocritica. Tenacia significa non lasciarsi schiacciare dai problemi dell’editoria, che non sono solo dare troppo spazio ad autori già famosi o a personaggi televisivi a scapito di scrittori più autentici, ma anche, spesso, la difficoltà di scoprire qualcosa di buono in un oceano di dattiloscritti illeggibili che arrivano giorno dopo giorno in ogni redazione e, avendolo scoperto, riuscire a far sì che i librai lo tengano in libreria. Autocritica significa non decidere a priori che il proprio scarrafone è più bello di quelli degli altri e che se non mi pubblicano è solo perché gli editori sono cattivi: implica confrontarsi con quello che scrivono altri autori (non necessariamente di bestseller) e – anziché copiarli – cercare di imparare da loro il mestiere. Autocritica significa anche domandarsi se i dialoghi dei nostri personaggi sono credibili, se la narrazione ha punti morti, se soffre di autocompiacimento pseudoletterario, se quello che stiamo scrivendo è interessante anche per un lettore o solo per noi stessi. E, infine, consiglio di tenersi lontani dagli editori a pagamento, che possono servire solo a soddisfare il proprio ego, ma non necessariamente a diventare scrittori.

Puoi presentarci la tua ultima fatica letteraria?

Il romanzo più lungo che abbia mai scritto… nel tempo più breve. Era da quando terminai di scrivere “Diabolik-La lunga notte”, nella tarda primavera del 2002, che continuavano a girarmi in testa idee su come proseguire le avventure di Diabolik ed Eva Kant partendo dall’istante preciso in cui li avevo lasciati. Alla fine del Luglio 2007, il mio primo giorno di vacanza, mi sono messo al computer e mi sono tuffato nell’avventura. “Diabolik-Alba di sangue” è un romanzo di 510 pagine scritto in sei settimane e ambientato nel corso di sei settimane, condividendo i ritmi e i problemi dei miei personaggi. Se Diabolik doveva escogitare un espediente per un colpo, io lo meditavo con lui. Se doveva improvvisare una via d’uscita da una situazione di pericolo, io la improvvisavo con lui. Probabilmente, è per questo che scrivere per me è come una droga di cui non posso fare a meno. È come scalare una montagna: so dov’è la vetta, ma non so quali imprevisti incontrerò nella scalata. So quali sono gli obiettivi dei miei personaggi, ma non come ci arriveranno, così condivido la loro adrenalina. L’idea di partenza, che mi è venuta proprio mentre finivo di scrivere il romanzo di Diabolik precedente è… la morte del protagonista. Al principio del romanzo Diabolik viene falciato da una raffica di mitra e, come ha osservato qualche giorno fa la scrittrice Barbara Baraldi “è proprio morto!”. Possibile che l’eroe di quarantacinque anni di fumetti sia stato cancellato così facilmente dalla faccia della terra? E che proprio Eva Kant possa essere complice della sua uccisione? Le 300 pagine successive spiegano come, a seguito di una ragnatela di intrighi, Diabolik si sia trovato in quella situazione e il resto del romanzo… be’, questo non lo posso rivelare. Ma sto ricevendo messaggi entusiasti dai lettori, anche da appassionati cultori del personaggio, che confidano che dopo questo romanzo scrivero altre avventure di Diabolik.

Detto “tra noi”…è più noir la letteratura noir o la realtà di oggi?

La realtà è sempre noir. Lo è sempre stata. Anche se spesso si è preferito fingere il contrario. Amo citare una battuta di Charles Bronson dal film “Città violenta” di Sergio Sollima: “La città è sempre violenta. Tu lo vedi solo quando sei con me”. La letteratura noir rispecchia e talvolta anticipa quello che accade nel mondo che ci circonda. Il sottogenere dello spionaggio, a cui mi dedico molto spesso, racconta quello che avviene, può avvenire o potrebbe essere avvenuto dietro un evento internazionale, ma non viene raccontato dai giornali. Eppure, quello che raccontiamo riflette eventi, grandi o piccoli che siano, che possono influenzare la nostra esistenza, che si tratti del ladruncolo della porta accanto o dei retroscena della “guerra al terrore”. Le nostre non sono storie rassicuranti. Ma, qualche volta, ci possiamo concedere, questo sì, una parvenza di lieto fine, che spesso nella realtà è riservato soltanto ai cattivi.

 

Marco Mancinelli
PressWeb Editor
pressweb@teletu.it


Intervista a Paola Pioppi: evento noir in Brianza

ottobre 14, 2007

Paola Pioppi - La Passione per il Delitto

Nel cuore della Brianza lecchese, a Monticello Brianza, dal 23 Settembre al 7 Ottobre, si è tenuta “La Passione per il Delitto“, manifestazione annuale dedicata alla narrativa noir. Seguita da un ampio pubblico, l’edizione 2007 della manifestazione brianzola ha riscosso sia una crescente attenzione da parte dei mass media che un significativo interesse da parte degli appassionati del genere noir e poliziesco. Ne parliamo con Paola Pioppi, giornalista e organizzatrice della “Passione per il Delitto“.

L’edizione 2007 della “Passione per il Delitto” si è conclusa il 7 Ottobre. Come responsabile dell’organizzazione, puoi illustrarci un bilancio complessivo della manifestazione?

Da qualche anno, la manifestazione registra circa seimila presenze ogni anno, con un programma che quest’anno si è articolato attorno a 80 ospiti italiani e stranieri, 35 eventi tra cui una serata teatrale e un concerto di musica classica, cinque incontri con musica leggera e spettacolo, sette momenti di recitazione. Questi i numeri. Devo però aggiungere che nel tracciare un bilancio va sottolineata la qualità del pubblico, che negli anni si è gradualmente abituato a recepire e frequentare il festival nella sua totalità, mostrando di apprezzare in maniera crescente i contenuti di una manifestazione che parte dal rapporto tra autore e lettore ed arriva a coinvolgere differenti espressioni artistiche e culturali. La nostra impressione è che questo pubblico si sia formato strada facendo in questi sei anni, capace non solo di crearsi in breve tempo un gusto proprio, ma anche di recepire quel concetto di rete territoriale che è alla base della ricchezza di contenuti della “Passione”.

Tra le varie iniziative offerte al pubblico, spiccano gli incontri con gli autori noir. Cosa è emerso di particolare dal loro confronto con gli appassionati del genere?

Il calendario di incontri tra autori e pubblico rimane l’elemento principale della manifestazione, attorno al quale vengono costruiti gli altri eventi. La scelta cade non solo su noiristi, ma su tutti coloro che ruotano attorno alla narrativa di genere, nei suoi diversi stili e collocazioni. La formula di affiancare nomi noti a scrittori emergenti continua a piacere, perché offre la possibilità di scoprire nuovi autori che spesso non rientrano nemmeno nelle proposte abituali delle librerie. È invece ancora tutto da comprendere il riscontro sugli stranieri, la cui presenza di anno in anno viene chiesta da un pubblico che poi si mostra meno interessato rispetto agli autori italiani.

Come è nata l’idea di organizzare un vero e proprio festival del libro noir in Brianza?

In realtà questa manifestazione non è nata con l’idea di festival: semplicemente sei anni fa abbiamo organizzato tre incontri con dodici autori di genere, ma subito il riscontro del pubblico è andato al di là delle nostre aspettative. Alla dimensione attuale siamo arrivati nel giro di due o tre anni, partendo dal criterio di realizzare una manifestazione sinergica al territorio in tutti o quasi i suoi contenuti. In sostanza qualcosa fatto per il territorio ma anche dal territorio. Da qui è nata una progettazione che prevede il coinvolgimento delle diverse realtà culturali e produttive locali, in un progetto che ruota attorno ad un tema comune, quello appunto della narrativa poliziesca: biblioteche, scuole, artisti, chef e produttori Slow Food, strutture di accoglienza, ora anche i cinema.

Come viene percepita “La Passione per il Delitto” dal pubblico, dagli autori e dagli editori?

Credo in maniera estremamente positiva, anche se forse la mia è una visione di parte. Ci sono però ogni anno crescenti segnali di apprezzamento sia da parte degli autori, che ripropongono la loro disponibilità per l’anno successivo, che delle case editrici. Con alcuni uffici stampa la manifestazione ha avviato collaborazioni molto consolidate e ormai ogni anno si pone il problema non tanto di chi invitare, ma di chi non invitare. Per quanto riguarda il pubblico, al di là dell’apprezzamento che emerge dai questionari distribuiti negli ultimi due anni, riceviamo parecchie e-mail nelle quali, per esempio, ci viene chiesto di prolungare la durata della manifestazione: una richiesta impossibile da soddisfare, perché la nostra struttura si regge sul lavoro di un gruppo di volontari, tutte persone che lavorano e che prestano tempo all’organizzazione già da alcuni mesi prima. Credo che il nostro grande limite sia proprio questo, il dover fare i conti con risorse umane e organizzative di questo genere, ma  in realtà è forse una delle caratteristiche più apprezzabili di questa rassegna.

Idee in cantiere per l’edizione 2008? Cosa possiamo aspettarci?

Qualche idea su cui lavorare c’è già: stiamo pensando a come ampliare gli eventi attraverso una ulteriore differenziazione delle proposte, per rivolgerci ad un’utenza nuova rispetto a quella che ha gravitato attorno alla manifestazione in questi anni, o comunque per offrire alternative inedite. Rimane sempre aperta la scommessa del coinvolgimento dei giovani, che in questi anni ha dato ottimi risultati, ma che vorremmo incrementare. Per quanto riguarda programmi e contenuti, il criterio è sempre quello di differenziare e rinnovare senza dimenticare gli autori a cui il pubblico è ormai affezionato.

Per informazioni: www.lapassioneperildelitto.it

 

Marco Mancinelli
PressWeb Editor
pressweb@teletu.it

 


Più serietà nel settore dei servizi non guasterebbe…

ottobre 11, 2007

Non sono rare le occasioni di incontro in cui chi opera nel settore dei servizi (in particolare, comunicazione e marketing) si confronta con i propri colleghi in merito alle tendenze in atto, alle nuove esigenze professionali e via dicendo. Anche se, a volte, è pur vero che in occasioni di meeting e di seminari, non sono poi così pochi quegli operatori che tendono, in prevalenza, a “parlarsi addosso” piuttosto che a discutere fattivamente e a 360 gradi del proprio settore professionale, va comunque detto che si tratta di opportunità di incontro che, spesso, offrono delle interessanti panoramiche sui bisogni e sulle prospettive del settore MarCom (Marketing and Communication). Quali fattori emergono? Molti e tutti qualificati: l’importanza delle nuove tecnologie, l’esigenza di un approccio maggiormente culturale alla propria professione, la necessità di fare network per affrontare problematiche nuove e via dicendo. Certo, si tratta sempre di aspetti realmente importanti e non di dettagli da poco o marginali. Ma, cosa alquanto strana, mai o quasi mai che si faccia riferimento anche alla necessità di incoraggiare comportamenti seri e, allo stesso tempo, scoraggiare e, dunque, sfavorire comportamenti che di serio non hanno un bel nulla. Immagino già qualche collega che, intento a leggere queste righe, si chiederà: “Ma dove vuole andare a parare, quello di PressWeb?…”. Una volta tanto, al di là delle indubbie e variegate professionalità di alto livello presenti nel settore MarCom, sarebbe ora di puntare il dito verso quei comportamenti scorretti e/o inopportuni che ledono, è il caso di dirlo, sia l’immagine di chi opera seriamente nel settore, sia l’operatività di certe strutture e sia, a volte, l’efficacia di seri progetti di marketing o di comunicazione. Facciamo un po’ di esempi casuali (ma reali) e in ordine sparso… Durante un meeting tra comunicatori, una persona operante nel settore delle relazioni pubbliche (ufficio stampa per aziende ed eventi) ha dedicato circa metà del proprio intervento come speaker di turno a parlare male di un suo collega (un concorrente) non ritenuto all’altezza della professione di press office, adducendo motivazioni risultate alquanto incomprensibili a gran parte della platea, saltando “di palo in frasca” e non facendo capire un gran che. Se si hanno cose intelligenti da dire, è sempre bene dirle ed esporle in modo comprensibile (e, vista la mansione svolta, magari in modo professionale): possibile che personaggi simili trovino ancora spazio nel settore? Da tempo ormai immemore, un funzionario (contrattualmente impiegato come quadro e che coordina un team di persone) di una struttura camerale volta a predisporre servizi alle imprese persevera quasi costantemente nella sua assenza operativa e, quando si esprime, mostra frequentemente di avere un basso spessore a livello di competenze (insomma, idee poche e confuse); si esprime (oralmente e per iscritto) in un reiterato burocratese e, non di rado, passa il tempo a leggere il giornale in ufficio. Non a caso, diversi suoi colleghi, per definire il personaggio in questione, non trovano di meglio che ricorrere al termine “fancazzista” (come dar loro torto, considerato in che mani sono finiti?). Andiamo oltre… Durante la presentazione di un evento culturale, una persona sedicente esperta di comunicazione e di organizzazione di eventi ha esposto alla platea un discorso completamente “raffazzonato”, scarno in termini di contenuti e ben poco utile, in particolare, ai giornalisti presenti; inoltre, la persona in questione si è sentita anche molto “cool” nel definire il suo lavoro “un gioco”. Ora, va benissimo percepire il proprio lavoro anche come un aspetto gradevole (se c’è passione, è legittimo e automatico, ben venga), ma, visto l’immane disordine con il quale tale “fuoriclasse” ha impostato la comunicazione propria e dell’evento, sarebbe il caso che tornasse davvero a giochicchiare con trottole e cavallo a dondolo, altro che occuparsi di communication and event organization! Ulteriori esempi di come non si dovrebbe lavorare e di come non ci si dovrebbe comportare nel settore non mancano: aneddoti da raccontare ce ne sono a volontà, ma non è questo l’unico punto centrale della questione, c’è dell’altro. Oggi, all’interno del settore MarCom, considerando sia la giusta tendenza e sia la necessità di procedere verso approcci innovativi in termini di idee e di progetti, una maggiore serietà abbinata a una maggiore selezione da parte di strutture e di clienti del settore non guasterebbe di certo. Eppure, pare che ci sia ancora chi ritiene, consapevolmente o meno, di poter operare all’insegna dell’improvvisazione e del nulla.

 

Marco Mancinelli
PressWeb Editor
pressweb@teletu.it